1 ricetta e 1 cosa bella n°94 (quella palestinese)
GoFundMe & Egitto, dollari & trafficanti, una mela avvizzita & una focaccia favolosa
Ciaone
Due cose ENORMI sono successe nella mia vita nell’ultimo anno e mezzo: abbiamo preso possesso della casa in campagna, e io ho “preso in carico” una famiglia palestinese.
Più giù, nella cosa bella, per una volta non ti parlerò di orto e giardino, ma di cosa significa occuparsi – dalla propria tiepida casa in uno dei paesi più ricchi del mondo – di una giovane vedova e dei suoi tre bambini rifugiati di guerra.
Se stai allargando gli occhi: sì, è una cosa bella, tanto bella quanto dolorosa. Per mia grandissima fortuna ho la campagna che mi tiene sana di mente!
1 ricetta
Anzi 40: questa newsletter è dedicata alla Palestina, e quindi ti rimando a “Cocomero”, l’ebook di ricette di ispirazione levantina che ho co-scritto con amiche e colleghe l’anno scorso. Il ricettario si compra qui, facendo una donazione minima di 5€ che va direttamente a una famiglia palestinese.
Le ricette sono appunto 40, dagli antipasti ai dolci, e sono tutte prive di violenza perché 100% vegetali.
Ti faccio alcuni esempi di come Cocomero è stato usato per spargere il suo messaggio di pace e solidarietà; ci sono persone che:
invece di fare un’unica sostanziosa donazione, ne hanno fatte diverse e mandato il libro ad amici
per il loro compleanno hanno chiesto l’acquisto di copie di Cocomero, da donare poi ad altri amici
hanno organizzato cene a tema, preparando solo ricette dal libro, ogni volta con amici diversi (che a loro volta hanno fatto lo stesso)
hanno organizzato cene a base di ricette del libro per raccogliere direttamente fondi tra gli invitati
hanno lasciato delle “donazioni sospese” per chi volesse l’ebook ma non fosse nelle condizioni economiche per comprarselo
hanno usato Cocomero come regalo aziendale natalizio, facendolo arrivare ad oltre 100 clienti
hanno fatto una grossa donazione, scaricato e stampato copie da regalare agli invitati alla Comunione del figlio, come bomboniera
hanno stampato e rilegato in casa con carta e stoffa di recupero, per poi regalarlo a una persona speciale
Una professoressa ha letto il libro in classe e poi fatto una donazione per tutte le ricette provate dai suoi allievi!
Per farti venire l’ispirazione, ti faccio vedere quale ricetta farò dal libro proprio oggi per pranzo:
Queste focaccine di Cristina Mauri, con il suo trucco geniale… se non ho voglia tempo di impastare, uso una base pronta per pinsa, spennellata con olio e za’tar e infornata fino a cottura!
Lo za’tar è un mix di erbe e spezie tipico della regione levantina, che si usa come insaporitore. Gli ingredienti variano nelle regioni, ma più o meno sono: origano, timo, sommaco, sesamo, maggiorana, issopo, finocchio, cumino, sale. Si trova pronto nei negozi di cibi esteri e nei supermercati più forniti.
Sahtein! (Buon appetito!)
1 cosa bella
La scorsa settimana abbiamo festeggiato il primo anniversario di un giorno che non dimenticheremo mai: il 23 aprile del 2024 la mia amica Elham e i suoi bambini Waseem, Ameer e Abd Al Rahman (detto “Ebi”) sono usciti da Gaza e si sono messi in salvo.
Pochi giorni dopo il varco di Rafah verso l’Egitto fu chiuso, e da allora mai più riaperto.
Nella Striscia oggi sopravvivono la madre di Elham, le sue sorelle, i cognati, i nipoti, i cugini. Come è frequente nelle società arabe, la loro è una famiglia numerosa e per questo maggiormente colpita dalla tragedia: dall’ottobre del 2023, 50 membri uccisi, tra cui 9 bambini e Mohammed, il padre di Waseem, Ameer e Ebi, che ha visto i suoi figli per l’ultima volta quel giorno, davanti al varco di Rafah; 70 parenti feriti; una sorella di Elham dispersa da due mesi.
La nostra amicizia è cominciata così…
Nel gennaio del 2024 ricevevo molte richieste di aiuto via DM, su Instagram.
Civili palestinesi che vedevano i miei commenti sotto i post della Croce Rossa Palestinese e di vari giornalisti, e che mi chiedevano di condividere sui miei social i loro GoFundMe: erano tutte raccolte per potersi pagare l’uscita da Gaza o ricostruire la casa bombardata.
In quei primi mesi di invasione, la gente stava ancora dando fondo ai suoi risparmi per comprare cibo nella brutale economia di guerra, con prezzi irraggiungibili per i pochi beni di consumo disponibili. Nessuno poteva credere che i bombardamenti sarebbero andati avanti: era l’impensabile, l’indicibile. Non era possibile che una “soluzione finale” si svolgesse sotto gli occhi di tutti, con un’informazione capillare che raggiungeva ogni angolo del mondo in tempo reale.
E quindi i soldi che chiedeva erano per i grandi progetti: uscire dall’inferno; o restare nell’inferno, per non abbandonare le macerie della propria casa.
Contemporaneamente, io entravo nella chat di un gruppo di volontarie italiane che davano supporto tecnico per le campagne GoFundMe; diffondevano informazioni che arrivavano direttamente dai civili nella Striscia; e facevano da ponte tra gli stessi palestinesi a cui veniva spesso tagliata la connessione internet (oltre all’elettricità per caricare i telefono e rimanere connessi) e che avevano bisogno di sapere che in quel quartiere c’era un ambulatorio che aveva ancora antibiotici, o di stare lontani dall’ospedale in cui erano entrati i soldati israeliani e avevano sparato perfino sui bambini feriti nei letti.
Eravamo in sette, se ricordo bene, il primo giorno; dopo poche settimane eravamo 200, divise in gruppi di lavoro. Sotto il nome di Watermelonfriends.it., le volontarie avevano tutte in carico almeno una persona o una famiglia palestinese; questo significava far girare le loro raccolte fondi e chattarci ogni giorno per offrire conforto morale e suggerimenti per migliorare la loro presenza sui media.
Per cultura e religione, infatti, le persone palestinesi sono molto schive e non mostrano volentieri se stesse, tantomeno le loro disgrazie. Il problema è che non basta dire “aiutatemi per favore” per fare presa sul cuore e sul portafogli di una persona che sta in un continente diverso ed è abituata all’oversharing occidentale: ci vogliono una faccia, un video di un bambino che piange per la fame, una tenda inondata dalla pioggia.
Era nostro compito convincere queste persone che avevano perso tutto… che dovevano perdere anche il loro senso di dignità.
Presto la massa critica di civili superò il limite che il gruppo poteva concretamente gestire.
Una ragazza che mi aveva scritto e che avevo diretto verso il gruppo di lavoro che vagliava l’attendibilità dei profili con un protocollo preciso (che non divulgo), fece appena in tempo ad essere inserita, anche perché io e un’altra ragazza (Veronica, fotografa fiorentina) decidemmo che ce ne saremmo prese cura privatamente in ogni caso.
Quella ragazza era Elham.
Elham aveva bisogno di soldi per uscire da Gaza. Stava impazzendo per l’angoscia, per la depressione, per la stanchezza, per la fame, per il freddo, per il ronzio dei droni che dal 7 ottobre non aveva mai cessato di riempirle la testa.
Era rifugiata in una scuola sventrata a Rafah. Era arrivata lì a piedi dal nord, dove era la sua casa, bombardata immediatamente allo scoppio della guerra, camminando sui cadaveri rimasti nelle strade, in pigiama – così come era uscita di notte al suono delle sirene: in pigiama e pantofole, col telefono in una mano e i bambini terrorizzati nell’altra.
A Rafah una sua amica aveva ancora una casa con acqua corrente; ogni tanto la ospitava, soprattutto quando Elham stava particolarmente male per gastroenteriti ripetute da cibo avariato e per un’infezione polmonare dovuta alle fiamme libere con cui si scaldava e cucinava.
Per aiutarla da questo lato del Mediterraneo, uscii da WatermelonFriends.it e mi dedicai a tempo pieno a lei, imparando a navigare il mare procelloso di GoFundMe.
Il riassunto è che ci vollero mesi per farle arrivare i soldi che stava raccogliendo, perché se sei cittadina di uno stato che poche nazioni riconoscono, hai tutto il mondo contro per default.
Ma ci tengo a condividere i dettagli, perché senza quelli non c’è una storia da ricordare e tramandare.
Per cominciare, se sei palestinese non puoi aprirti un GoFundMe: devi trovarti qualcuno in un paese “occidentale” che lo faccia per te, e questa persona deve passare un vaglio fatto di ripetute richieste di documenti e dichiarazioni di intenti prima di ricevere le tue donazioni sul suo conto in banca e poi girartele.
Se è una persona onesta.
Perché so di tanti “amici” all’estero che si sono tenuti delle percentuali, o tutti i soldi, e poi sono sparite.
È successo anche a Elham con la sua prima campagna.
Al secondo tentativo era passata ad Abdo, un ragazzo palestinese emigrato negli Usa; ma trasferire i fondi raccolti sul conto di Abdo al mio e poi ad Elham è stata un’ordalia burocratica che ha richiesto settimane di lavoro.
Finalmente è comunque arrivato il momento di trasferire i soldi in Egitto, dove risiedono due sorelle di Elham, Hanadi e Jihad, che hanno sposato uomini egiziani.
Ma – di nuovo, come nei Giochi Senza Frontiere - se sei palestinese non puoi prendere la cittadinanza egiziana nemmeno via matrimonio. E se non hai la cittadinanza egiziana, non puoi avere un tuo conto in banca.
Siccome bisognava trasferire 13.500 dollari per le spese di viaggio di Elham e dei bambini, abbiamo studiato il modo per farli arrivare al Cairo senza intoppi con grande creatività con i cognati di Elham, il mio commercialista e il mio referente di banca (santo subito, si è prodigato tantissimo e ci ha abbonato le cospicue spese di trasferimento).
Ahahhaha. Gli intoppi.
Forse non tutti sanno che l’Egitto, dopo la crisi del 2019, ha detto mobbasta fare affari in dollari statunitensi, qui la moneta ufficiale è la lira egiziana. Se vedo girare dei dollari su un conto bancario, vengo e vi faccio tottò sulla manina.
Peccato che in realtà tutti gli affari in Egitto si fanno ancora solo in dollari.
E peccato che l’Egitto è posto dai nostri paesi occidentali nella lista nera dei “paesi non collaborativi”, per cui puoi mandare al massimo 5000 dollari alla volta. Ma nessuno lo sa, non è scritto da nessuna parte ufficialmente: lo scopri per caso, a forza di bonifici che rimbalzano e perché il tuo commercialista ha un cliente che ha rinunciato a fare affari con l’Egitto per questo motivo.
Poi: per mandare dei dollari in Egitto, serve un conto internazionale fattapposta per ricevere dollari. Posto sotto grande attenzione dalle autorità locali, ovviamente. La domanda a cui tutti dovevamo rispondere era: perché il cognato di Elham che quei soldi li guadagna in un anno ne riceve altrettanti tutti d’un colpo da una tizia italiana? E poi dovrà ben pagarci sopra le tasse!?
Abbiamo tentato varie strade con piccoli trasferimenti: PayPal, Revolut, WesternUnion, MoneyGram. Alla fine, abbiamo risolto con una staffetta di bonifici, che sono stati bloccati più volte in un limbo pirandelliano. Ci sono stati momenti in cui non sapevamo se sarebbero arrivati, se sarebbero tornati indietro o se sarebbero spariti e basta.
Quelli sono stati i giorni peggiori, perché l’IDF aveva annunciato che sarebbe entrato a Rafah. Il terrore era costante, la fame pure. Ricordo il giorno che Elham ha visto il suo vicino di tenda polverizzato da un missile, a pochi metri da lei. E il giorno che aveva trovato una piccola mela avvizzita al mercato, dopo mesi di soli fagioli in scatola.
C’erano trafficanti che promettevano di portare i civili oltre cortina per cifre che cambiavano ogni giorno: 5000 dollari, no 20.000. Era difficile fidarsi, ma Elham per la disperazione voleva fidarsi. Poi l’agenzia che arrangiava questi viaggi fu bombardata e i soldati israeliani andarono a casa del proprietario: uccisero a mitragliate sua moglie, i suoi figli, i suoi genitori. Lui si salvò perché era fuori.
Io e Veronica cercavamo di tenere Elham calma: c’era un solo modo sicuro di viaggiare, ed era attraverso l’agenzia di viaggio egiziana Hala, l’unica che procurava visti ufficiali e i mezzi per passare da Gaza al Cairo. Il prezzo, in quel periodo, era di 5000 dollari per adulto e 2500 per bambino. Era pure un prezzo scontato in vista della chiusura del varco: prima era di 15.000 dollari ad adulto e 7500 a bambino (e se volevi portarti dietro il gatto, come è stato richiesto per una bimba sotto shock che dipendeva emotivamente dal suo, altri 2500).
Finalmente, a bonifici andati tutti a buon fine, Hanadi potè cominciare il suo girone dantesco presso la sede centrale di Hala al Cairo: giorni in fila, da un ufficio all’altro, per mettere Elham e i bambini in lista d’attesa. Solo un parente stretto poteva fare richiesta di ricongiungimento, e solo portando dollari in contanti.
Di fatto, gli unici palestinesi che potevano sperare di uscire da Gaza erano quelli che avevano un poker d’assi: una raccolta di molte migliaia di dollari + qualcuno in Europa, Usa o Australia che gli gestisse un GoFundMe + un parente in Egitto che potesse essere palestinese, eppure ricevere i soldi senza avere un conto in banca + fare in tempo ad iscriversi nelle liste d’attesa di Hala (40 giorni per essere chiamati, per poi presentarsi entro 24 ore al varco, pena perdere il posto e i soldi versati).
Oggi io sono qui a raccontarti tutto questo perché Elham ha avuto le carte giuste in mano.
La sua vita e quella dei bambini sono salve grazie alle donazioni ricevute da persone italiane che non si sono voltate dall’altra parte davanti a questi crimini contro l’umanità.
I bambini vanno a una scuola privata perché non sono cittadini egiziani e non hanno diritto a quella pubblica; Elham lavora come segretaria 40 ore alla settimana per 100 dollari al mese; l’affitto delle due stanze in cui vivono è 200 dollari al mese.
Siamo noi che li manteniamo, in attesa di una seconda mano fortunata: il riconoscimento del loro status di rifugiati di guerra + un permesso di soggiorno rinnovato e che non scade (non cito il loro cognome per questo motivo) + l’accesso alla scuola e alla sanità pubblica.
Puoi leggere della loro vita in Egitto qui, dove puoi fare anche una donazione. Anzi: sarebbe fantastico se potessi settarne una periodica, anche di pochi euro!
Se vuoi conoscere Elham, scrivile in Dm su Instagram. Puoi scriverle in italiano, lei usa un traduttore automatico per leggere e rispondere dall’arabo; ma se vuoi essere davvero gentile, usalo tu ❤️
Togliti una curiosità
Si chiama badoude: è l’olio di oliva affumicato, una prelibatezza della tradizione palestinese che spero di poter assaggiare un giorno.
Le olive vengono colte, affumicate su un fuoco di certe erbe locali, pestate con pietre e poi spremute a mano, come si vede in questo video.
L’olivocoltura è nata proprio nella zona che ora conosciamo come Turchia, Siria, Palestina e Israele, circa 6000 anni fa.
Video della settimana
Questo è il video della settimana di un anno fa: Elham, Waseem, Ameer e Ebi sul pulman che li porta in Egitto. Gli ultimi spicci rimasti sono andati in una merenda per i bambini, magrissimi per i pasti saltati per mesi.
Ma gli occhi di Elham, il suo sorriso…
Grazie Sasha.
Ho comprato Cocomero appena lo avete presentato e ogni volta che replico una ricetta mi emoziono.
Sono così arrabbiata e addolorata davanti a questa tragedia che non ho più parole. Mi sento inutile, vorrei avere delle competenze mediche per poter partire, mi credi?
Cerco di aiutare da lontano, di sostenere le campagne meritevoli, di diffondere le notizie. Eppure ogni giorno la situazione peggiora. Chi dovrebbe occuparsene si gira dall'altra parte. E chi potrebbe parlarne e assicurare una giusta copertura mediatica, non lo fa.
Non so come andrà a finire ma, per parafrasare De André, per quanto ci crediamo assolti
saremo per sempre coinvolti.
Un abbraccio.
Ti ammiro molto. Ho preso Cocomero qualche settimana fa e non vedo l'ora di replicarne le ricette. Scrivo costantemente da due anni della Palestina, ma non raggiungo cifre tali da contare effettivamente qualcosa sul mondo dell'informazione (soprattutto se questo è inondato di odio). A differenza tua, che ti sei prodigata nei commenti ai post della Croce Rossa, io ho dovuto disinstallare i social. Non ce la facevo a vedere corpi disintegrati e bambini morenti tra un post e l'altro. Mi sembrava tutto troppo assurdo e troppo doloroso. È bello sapere che c'è qualcuno che riesce a vedere queste scene e a mobilitarsi sul serio. Ed è bello sapere che le vie della speranza sono tante e sono percorse da persone come te ❤️